Descrizione Progetto
Roi René, (1964)
L’opera in bronzo ha partecipato alla mostra presso Galleria Pananti di Firenze nel 1977, alla 2° Rassegna Nazionale del Sacro nell’arte contemporanea di Palermo nell’anno successivo, alla mostra presso la Galleria Ca’ d’Oro di Roma nel 1989, alla mostra “Vanitas vanitatum et omnia vanitas” di Montevarchi nel 2001.
La grande scultura era collocata presso il Museo di Arte Moderna “Ernesto Galeffi” fino all’autunno 2009. Il Roi René si inserisce tra la produzione di Galeffi del secondo periodo, ovvero di quella fase, tra il 1961 e il 1981, in cui egli si orienta e si concentra sulla scarnificazione del corpo, dopo un periodo evidentemente brancusiano e di morbide realizzazioni. Le opere sono inquietanti, crude, di animali prima e di corpi umani dopo, arsi, finiti, lacerati, scheletrici. Della particolarissima produzione di quel periodo, incentrata sul tema dei Fedeli d’Amore e dei Templari, la scultura del Roi René è sunto ed emblema, dai chiari riferimenti alchemici e filosofico – esoterici tardomedioevali. Il soggetto, tratto da una iniziatica leggenda medievale, si può duplicemente interpretare: da un lato si riferisce alla raffigurazione sulla propria tomba nella Cattedrale di Angers di Renato d’Angiò detto il Buono, padre di Luigi XI e autore di “Le livre de Cuer d’Amour espris“; dall’altro all’idea di “rinascita” – Re Rinato – in un’accezione alchemica. Da qui la scultura scarna, scheletrica, inquietante e totalmente tragica, resa straordinaria dalla contrapposizione tra la ineluttabile fisicità mortale e l’immortalità invece della corona che lo scheletro indossa. A differenza delle altre immagini totemiche dei Fedeli d’Amore, che pure si riferiscono e si legano a similari fondamenti filosofici, la figura non è totemica ma umanizzata, di una proporzionata stilizzazione, di una cruda spigolosità.
La grande scultura era collocata presso il Museo di Arte Moderna “Ernesto Galeffi” fino all’autunno 2009. Il Roi René si inserisce tra la produzione di Galeffi del secondo periodo, ovvero di quella fase, tra il 1961 e il 1981, in cui egli si orienta e si concentra sulla scarnificazione del corpo, dopo un periodo evidentemente brancusiano e di morbide realizzazioni. Le opere sono inquietanti, crude, di animali prima e di corpi umani dopo, arsi, finiti, lacerati, scheletrici. Della particolarissima produzione di quel periodo, incentrata sul tema dei Fedeli d’Amore e dei Templari, la scultura del Roi René è sunto ed emblema, dai chiari riferimenti alchemici e filosofico – esoterici tardomedioevali. Il soggetto, tratto da una iniziatica leggenda medievale, si può duplicemente interpretare: da un lato si riferisce alla raffigurazione sulla propria tomba nella Cattedrale di Angers di Renato d’Angiò detto il Buono, padre di Luigi XI e autore di “Le livre de Cuer d’Amour espris“; dall’altro all’idea di “rinascita” – Re Rinato – in un’accezione alchemica. Da qui la scultura scarna, scheletrica, inquietante e totalmente tragica, resa straordinaria dalla contrapposizione tra la ineluttabile fisicità mortale e l’immortalità invece della corona che lo scheletro indossa. A differenza delle altre immagini totemiche dei Fedeli d’Amore, che pure si riferiscono e si legano a similari fondamenti filosofici, la figura non è totemica ma umanizzata, di una proporzionata stilizzazione, di una cruda spigolosità.
Elena Facchino