Descrizione Progetto
L’inizio alla vita (Rovi e spine; La via delle spine; Spine), 1902
Un anno dopo aver concluso gli studi all’Accademia Albertina di Torino, Monti partecipa alla prima esposizione Quadriennale torinese con quest’opera per la quale usa come modelli i fratellini minori Leonardo e Antonietta. Quella del 1902 è una mostra decisamente importante poiché parallela alla Prima Esposizione d’Arte Decorativa Moderna, e in quell’occasione ottiene un grande successo di critica documentato dagli interventi di Domenico Belfiore e di Efisio Aitelli sulle pagine della «Quadriennale», rivista illustrata dell’esposizione. Sul n. 6 Belfiore scrive: «[…] Accanto al Canonica, metto un giovane che è alle sue prime armi, il Monti, il quale nel suo gruppo di proporzioni quasi al vero, “Spine”, ha toccato una nota sociale, senza scendere nella retorica o nelle viete, solite forme borghesi. Il Monti dimostra innanzi tutto di aver nozioni anatomiche degne d’un maestro. Questi corpi nudi di fanciulli sono veri. Essi sentono il sangue. Le tenere carni sono plastiche e molli. Il moto lento del loro corpo è colto nel momento più umano. Essi procedono sul sentiero coperto di spine. Uno regge l’altro. Eppure vanno innanzi fidenti, come spinti da una speranza. L’opera d’arte è essenzialmente nel sentimento, nelle forza comotiva che si sprigiona dal gesso. Guardate la fisionomia dei bambini. Essa vi si imprime nella memoria, e non la dimenticate più. La si chiami arte sociale, o arte di sentimento. Non è, questo sì, una superficialità che vi accarezza semplicemente la retina, o vi punge l’epidermide. È qualcosa che va sino al fondo al cuore, e vi agita e vi turba, pensando che forse di scamiciati e di meschini così ne vedete cento e cento nella vita, e mai avete pensato di confortarne il destino e di sollevarne il tacito spasimo». Efisio Aitelli, sul n. 12 della stessa rivista, scrive un lungo articolo su quest’opera e sul suo autore nel quale, a parte la cristallina ed emozionata descrizione poetica, i toni sono di profonda polemica e amarezza nei confronti della commissione che non acquista, non segnala e non premia la scultura che, secondo il suo giudizio, avrebbe invece trovato degna collocazione in un museo pubblico. Per la difficile reperibilità di tale fonte è utile riproporlo integralmente: «In un angolo della grande sala della scultura, tra monumenti sepolcrali e gessi piccoli e grandi, è stata collocata l’opera d ‘un giovane alle sue prime armi: “Inizio della vita” di Michelangelo Monti. In un altro momento di minori preoccupazioni e di meno gravi commenti, la scultura di questo giovane artista avrebbe attratta la simpatia e l’ammirazione del pubblico e dei critici. Invece essa è passata quasi inosservata e non poteva essere altrimenti dal momento che scrittori d’arte, che son conosciuti da tutti, confessano pubblicamente di non aver ancora visitato il salone, ed artisti di quelli sereni e sinceri, che non hanno preconcetti di tendenze e di persone, dichiarano di non indugiarvisi senza un grande sconforto… Ebbene, quante volte io mi reco alla Quadriennale, sento il bisogno di fermarmi in lunga ed amorosa ammirazione su questa opera del Monti, e più la guardo, più il sentimento che riveste, più la schietta inspirazione che rivela, mi riempiono il cuore d’una profonda melanconia. Ah! dunque ci sono ancora dei giovani che fanno dell’aite che commuove e parla all’anima! Ci sono ancora dei giovani che sanno modellare dei bei nudi, e sanno infondere nella bruta materia quell’espressione di bellezza che invano, desolatamente ricerchiamo! Per un artista uscito da un anno appena dall’Accademia, questo gruppo doveva essere ben più rimeritato che dei pochi compiacimenti soggettivi manifestati nell’ombra e nel silenzio. Ma il Monti, forse, ha sbagliato nel non dare una figura procace di femmina o di baccante, ha sbagliato nel non ripetere un oscuro disegno balenato alla sua fantasia in un momento di “spleen”. Ha voluto simbolizzare in un gruppo, di un realismo quasi crudele, il più amaro dolore che è nella vita. E senza avvedersi ha dato un’ opera, in cui altri vede nient’altro che un audace intento sociale. La via delle spine! l’abbiamo sentita tutti un poco. È nell’angoscia del bimbo che va verso l’ignoto sul cammino sparso di rovi di spine, portando sulle spalle il fardello di un innocente che a lui si abbandona inconsapevolmente, il dolore che nella esistenza umana, e che ci fa andare fatalmente verso gli abissi o verso le vette superbe. Il concetto stesso che il Monti ha chiuso nel suo gesso basterebbe a significare la sincerità con cui l’opera è stata meditata. Ma questa è ancora superiore per le doti plastiche che possiede, per il suo valore intrinseco di modellazione. Nel bimbo che sale lentamente c’è il moto pacato del corpo che è sotto un grande dolore. Egli procede e le membra deboli sentono le stigmate della miseria e della solitudine. Nessuno verrà dunque ad aiutarlo? Nessuno giunge… ed egli va innanzi, come rianimato dal silenzio che è intorno a lui, in una mossa che rivela la suprema fiducia di se stesso in cui si riposa, come nella sola difesa che gli rimanga. Nell’altro bimbo più piccolo che gli si stringe fortemente al collo, è un senso di dolce ed infantile abbandono. Non ancora egli sa gli spasimi di quel cammino, su quei rovi, fra quelle spine… Egli non ode, non sente come batte il cuore di colui che così paternamente lo porta. Io non so davvero immaginare qualche cosa di più grande e di più suggestivo. Sì. So bene che qualche pecca non sfugge al Monti. So bene che lo studio più accurato di certe parti anatomiche gli avrebbero consentito di dare un’ opera quasi perfetta: ma com’è, essa è certo una delle migliori sculture della Esposizione, e vorrei scrivere una delle opere artistiche più singolari espostevi. Ora mi domando perché nessuna Commissione ha pensato di acquistarla, di additarla alla simpatia dei privati acquirenti. Perché non si è pensato di premiare, con qualche parola almeno, l’opera del Monti, che è l’opera, ricordiamolo, d’un giovane d’impegno e di attitudini non comuni. Doveva entrare nel “Referendum” pel premio della Stampa subalpina, e non vi fu ammessa. La scultura pare non possa avere la parte che le spetta accanto all’arte sua sorella, la pittura! Io non voglio credere che si sia proceduto negli acquisti un po’ da orecchiante, badando ai nomi noti, ai nomi simpatici. Non voglio credere neppure che siasi trascurato quest’opera del Monti pel suo significato sociale. Sarebbe assurdo e ridicolo. Ma non posso onestamente tacere l’impressione sgradevole che provano gli onesti nel vedere messo completamente a parte il gruppo, che, anche in gesso, può prendere un posto onorevole per l’artista e per l’arte in un pubblico museo. Non faccio in questa mia melanconica digressione una questione personale. Non conosco il Monti neppur di persona. Non so se proposte gli siano state fatte, o se particolari motivi abbiano impedito alle Commissioni acquirenti di prenderla in considerazione. So soltanto che trascurando, come si fa, un’opera come questa, i giovani hanno tutti i diritti e le ragioni di credere dimenticate le sagge tradizioni antiche, e di diffidare degli uomini che son messi a vigilare il buon andamento artistico italiano. Il Monti non ha certo bisogno d’una medaglietta, d’una stretta di mano, d’una vendita desiderata per andare innanzi, dove il suo cuore d’artista e le sue attitudini lo portano. Io credo che egli sia uno di quei giovani artisti che vivono appartati, pieni delle loro chimere e dei loro sogni, schivi dal mettersi innanzi, e di chiedere, anche con vie indirette, quello che gli dovrebbe essere concesso spontaneamente. Fino a prova contraria è il pubblico che deve andare verso l’artista; non l’artista verso il pubblico. In questo caso, giustizia e schiettezza volevano che l’opera del Monti fosse meglio considerata, se non dai filistei, da quelli che rappresentano l’intelligenza e la coltura d’arte». Lo stesso Aitelli, in un articolo sulla Quadriennale torinese pubblicato sul numero di ottobre della rivista «Emporium», torna brevemente sull’opera sostenendo che «Il Monti, giovane assai, in ‘Rovi e spine’ dà un’opera solida che in altro ambiente, in un altro momento, avrebbe avuto forse altra fortuna». Di dichiarato impegno sociale, alla mostra torinese del 1902 l’opera venne esposta davanti al notissimo «Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo, oggi conservato nella Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Certamente da considerare il capolavoro giovanile dello scultore da poco trasferitosi per completare gli studi dalla milanese Accademia di Brera all’Accademia Albertina di Torino, l’opera è emblematica di quanto fosse profonda l’assimilazione della cultura lombarda di provenienza – tra Bazzaro e Butti – sostenuta da modi formali e generi specifici. Nel caso dell’opera in esame la suggestione dall’opera di Enrico Butti, conosciuto e frequentato nell’ambiente accademico milanese, è evidente nel gusto per la composizione immaginosa nel senso del monumentale, nel suo saper fondere 1’uso di una materia vibrante con temi e soggetti di scoperto impegno sociale resi con una monumentalità di origine aulica. Non a caso le pagine critiche in difesa di quest’opera lasciano trasparire il fatto che, al momento della sua esposizione a Torino, la scultura del giovane Monti sollevò dibattiti e polemiche incentrate sull’arte d’ispirazione sociale, un linguaggio e una ricerca sicuramente più lombarde che piemontesi. Di Enrico Butti è sufficiente ricordare «Il minatore» (1887) della Galleria d’Arte Moderna di Milano, un’opera sulla quale il nostro, prima di eseguire «L’inizio alla vita», dovette meditare a lungo sovrapponendovi la suggestione sicuramente ricevuta dalla visione di «Les Malheureux» di Filippo Cifariello, scultura esposta a Torino nel 1898.
Tradotta in seguito in bronzo, dell’opera in esame sono noti due esemplari, uno conservato nella sede centrale della Toro Assicurazioni di Torino e l’altro di collezione privata.
Certamente da considerare il capolavoro giovanile dello scultore da poco trasferitosi per completare gli studi dalla milanese Accademia di Brera all’Accademia Albertina di Torino, l’opera è emblematica di quanto fosse profonda l’assimilazione della cultura lombarda di provenienza – tra Bazzaro e Butti – sostenuta da modi formali e generi specifici. Nel caso dell’opera in esame la suggestione dall’opera di Enrico Butti, conosciuto e frequentato nell’ambiente accademico milanese, è evidente nel gusto per la composizione immaginosa nel senso del monumentale, nel suo saper fondere 1’uso di una materia vibrante con temi e soggetti di scoperto impegno sociale resi con una monumentalità di origine aulica. Non a caso le pagine critiche in difesa di quest’opera lasciano trasparire il fatto che, al momento della sua esposizione a Torino, la scultura del giovane Monti sollevò dibattiti e polemiche incentrate sull’arte d’ispirazione sociale, un linguaggio e una ricerca sicuramente più lombarde che piemontesi. Di Enrico Butti è sufficiente ricordare «Il minatore» (1887) della Galleria d’Arte Moderna di Milano, un’opera sulla quale il nostro, prima di eseguire «L’inizio alla vita», dovette meditare a lungo sovrapponendovi la suggestione sicuramente ricevuta dalla visione di «Les Malheureux» di Filippo Cifariello, scultura esposta a Torino nel 1898.
Tradotta in seguito in bronzo, dell’opera in esame sono noti due esemplari, uno conservato nella sede centrale della Toro Assicurazioni di Torino e l’altro di collezione privata.
Alfonso Panzetta